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PROPOSTE DI LETTURA. “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia

Iniziamo una nuova rubrica dedicata a proposte di lettura dei libri degli autori della “Strada degli scrittori”. Un viaggio nelle pagine di Sciascia, Camilleri, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Russello e Rosso di San Secondo.

Oggi ospitiamo le riflessioni di Luciano Carrubba, docente negli istituti superiori, autore del libro “Francesco Paolo Di Blasi e il Riformismo nella Sicilia del Settecento” (Kimerik, 2020), uno dei protagonisti de “Il Consiglio d’Egitto” di Leonardo Sciascia, il romanzo del 1963 ambientato tra il 1782 e il 1795. Il libro di Leonardo Sciascia narra la vicenda del frate cappellano maltese e falsario don Giuseppe Vella e quella, parallela, del giurista, intellettuale e patriota Francesco Paolo Di Blasi.

La figura di Di Blasi nel romanzo Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. 

Il Consiglio d’Egitto (1963) di Leonardo Sciascia, racconta del creativo imbroglio filologico, letterario e sociale di don Giuseppe Vella che, in occasione del fortunoso arrivo a Palermo dell’ambasciatore del Marocco, Abdallah Mohamed ben Olman, vide e colse la possibilità di cambiare la propria vita assurgendo ai vertici della società, che fino a quel momento lo avevano snobbato. L’altro protagonista del libro è l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, con la sua intera vicenda biografica.
Il destino di Vella si incrocerà con quello di Di Blasi e il romanzo si concluderà con l’abate scoperto e condannato a 15 anni di reclusione, mentre l’avvocato finirà in carcere, torturato e decapitato, per aver sognato la repubblica siciliana.
Il Caracciolo è l’alter ego di Sciascia nel romanzo: non è un caso che a fine lettura permanga il ricordo di un personaggio assolutamente positivo, mentre il tentativo di smantellare il feudalesimo, il privilegio, radicato nelle abitudini, nella mentalità e in ogni fibra dell’essere, cominciato col Caracciolo e proseguito con l’inganno del Vella, era fallito definitivamente col sacrificio del Di Blasi.
Sciascia concede alla storia di costruirsi, senza troppe macchinazioni interne, intorno alla dualità dei punti di vista dei protagonisti principali. I due punti d’osservazione verranno alla fine a coincidere. L’avvocato Di Blasi, sul finire della narrazione, nell’agonia disperata conseguente la tortura, arriva a pensare all’abate Vella: «Ha declinato a suo modo l’impostura della vita: l’impostura che è nella vita: allegramente… Non l’impostura della vita: l’impostura che è nella vita… Non nella vita… Ma si, anche nella vita… […] è stata un’impostura anche la tua, una tragica impostura».

Dopo un costante cammino di avvicinamento, l’ambiguo Vella e il limpido Di Blasi si incontravano sul punto di svolta delle loro esistenze: il cinismo beffardo dell’uno si stemperava e quasi si correggeva nella lealtà dell’altro, lo scanzonato abate si rispecchiava nelle idee ugualitarie dell’appassionato avvocato.

Il romanzo volge al termine con l’epilogo dello stesso Di Blasi seduto mentre assisteva alla nevrotica perquisizione degli uomini dell’avvocato fiscale Damiani, cominciava a fare l’inventario della sua biblioteca, ironizzando su se stesso e sull’amore riservato a quella vecchia carta.
La scena si chiude sulla battuta rivolta all’avvocato Damiani “Imbecille […] e non capisci che sto cominciando a morire?”, e il lettore ritrova Di Blasi sottoposto alle torture, mentre le sue convinzioni vacillano, steso sul tavolaccio nell’attesa terribile del rinnovo di quelle pratiche disumane, dava inizio a un lungo soliloquio del pensiero, sulla dualità di corpo e mente e sulla conoscibilità della vera natura, dell’essenza delle cose, cominciando dai piedi devastati dal fuoco:

Francesco Paolo Di Blasi

«Ma come, guardando così disteso, tra l’occhio e i piedi gli pareva ci fosse irreale distanza, cosi era distante il dolore. Pensava a quei vermi che stanno interrati nell’umido: tagliati in due, ciascuna delle due parti continua a vivere, e così si sentiva, una parte del suo corpo viva soltanto del dolore, l’altra della mente. Solo che l’uomo non è un verme, anche i piedi appartengono alla mente: e quando i giudici l’avrebbero di nuovo chiamato, avrebbe dovuto riconquistare questa parte del suo corpo ormai così lontana, quasi recisa; comandare ai piedi di posarsi a terra, di muoversi. Davanti ai giudici, toccava ai piedi esprimere la serenità, la forza della mente: i piedi che già per sette volte, avevano subito tortura ».

Aveva provato a tenere lontano il dolore con la forza del pensiero e della mente, ma ora ne avvertiva l’intensità fisica e la sofferenza psicologica: era vivo.
Amare e bellissime le pagine sulla tortura, una delle tante beffe perpetrate alla ragione e all’intelligenza, eppure, malgrado fosse già allora chiaro ad ogni essere pensante che tali pratiche non potessero portare alla verità, bensì alla mortificazione dell’essenza stessa di individui, facenti parte del consorzio umano, sono state una prassi applicata a lungo per legge. Perfino l’abate Vella, per quanto mosso fino a quel momento da meri interessi personali, grazie al sacrificio dell’avvocato, si accorse di non essere indifferente a certi destini, di provare compassione per l’uomo e di simpatizzare anche con le idee sulla rivoluzione e su forme di governo più democratiche.

La nuda vita violata, il corpo dell’illuminista palermitano offeso e martoriato, quasi simboleggiava e incarnava un altro sopruso diverso ma complementare: quello perpetrato dall’aristocrazia siciliana sul corpo sociale della Sicilia borbonica.
Alle figure secondarie del servo e del boia è significativamente affidata la fine del romanzo : comparse emblematiche di un’umanità degradata ed emarginata dalla storia, che nello spettacolo orrendo della morte attraverso il rituale pubblico della ghigliottina, perdeva l’occasione di una rinascita sociale e della acquisizione di una coscienza di classe. Vella e Di Blasi in maniera differente, rappresentavano i portavoce dell’innovazione: il primo, anche se autore di un’impostura, in realtà non faceva che prendersi gioco della stoltezza di chi stava ai vertici della società, mentre il secondo apriva la strada ad un cambiamento radicale. L’analisi di Sciascia è impietosa e i fatti che narra sono emblematici, si prestano ad essere ascritti perfettamente ad ogni epoca ed a tratteggiare un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione saranno sempre destinate a soccombere.

Luciano Carrubba