“Io, dirigente della scuola del Maestro Sciascia”
Carmen Campo, vice presidente vicaria UCIIM Sicilia, alla guida dell’istituto comprensivo “Leonardo Sciascia” di Racalmuto, ricorda l’autore delle “Parrocchie di Regalpetra” nel centenario della nascita: “I suoi alunni hanno contribuito al cambiamento del suo paese”
Mi accingo a raccontare il “mio” Sciascia, nella qualità di dirigente scolastico della scuola nella quale il Maestro ha insegnato e che oggi porta il suo nome, ma anche di donna siciliana che si è nutrita, negli anni della sua formazione, tra gli altri, del pensiero sciasciano. Ricordo il primo approccio: l mare colore del vino alle medie, per trattare il tema dell’emigrazione, e poi al Ginnasio, gli appassionati confronti tra compagni di classe sui romanzi della maturità Il giorno della civetta, Il Consiglio d’Egitto, A ciascuno il suo, La scomparsa di Majorana, guidati nell’analisi e nello studio del pensiero politico e culturale da un’illuminata docente di lettere. Era un’eresia per la mia brava professoressa del Ginnasio (scomparsa da poco), studiare la letteratura senza conoscere i testi, discutere criticamente di un autore, senza averne ripercorso le pagine, così ci stimolava ad approfondire, leggendo i romanzi e i saggi, di diversi autori, tra cui Sciascia, che conosceva e del quale aveva condiviso, in parte, le idee politiche. Ricordo il parallelismo con il cinema ed il pensiero neo-realista, del quale lo vedeva erede, con la musica, ed in particolare con il cantautorato italiano di denuncia, con la cultura della metà del Novecento.
Ma vorrei parlarvi, soprattutto, del mio secondo incontro, da dirigente che arriva a Racalmuto, carica di anni e di esperienze, e ritrova nei “vissuti” banchi dell’Aula “Sciascia”, nei registri nei quali era alunno e in quelli da insegnante, il Maestro.
Avevo inizialmente pensato all’Aula “Sciascia” come ad una fittizia rievocazione storica, per poi ricredermi, allorché, immersa nelle antiche suppellettili (abecedari illustrati, regoli, pallottolieri, consunte carte geografiche, quaderni ingialliti), stimolata dalla potente forza evocativa di quegli arredi, carichi di storia, ho voluto ripercorrere le pagine del romanzo di esordio Le parrocchie di Regalpetra, con le sue puntuali “Cronache scolastiche”, per rivedere, attraverso le pagine del romanzo, quella porzione della carriera professionale dello scrittore racalmutese che lo ha visto maestro elementare, con gli occhi non più della giovane liceale, ma della donna di scuola, che ama il suo lavoro, che ama una terra, la sua, che serve con dedizione e lealtà, a caccia di affinità e differenze e, soprattutto, di autenticità.
Avevo apprezzato Sciascia come lucido e critico osservatore delle storture sociali di una Sicilia che, amata e “pianta”, diventa metafora ed icona di un’Italia troppo spesso caratterizzata da corruzione ed ingiustizie. Come avevo imparato nel manuale di letteratura del liceo (Pasquali, La società e le lettere), ho ritrovato l’autore che, con stile chiaro ed incisivo, parte dalla sua esperienza di insegnante di scuola elementare per descrivere la realtà umana e sociale di un paese della Sicilia “Ho tentato di raccontare – afferma nella prefazione dell’edizione Laterza del 1963 – qualcosa della vita di un Paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”.
Mi ha colpito e, forse, scandalizzato l’affermazione “Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie ed i meriti di un simile lavoro”. Considero un onore ed un privilegio lavorare a contatto delle nuove generazioni, accompagnandole nell’avventura di apprendere.
Perché il maestro Sciascia non amava la scuola? Probabilmente sentiva di avere una vocazione peculiare, dalla quale il lavoro scolastico avrebbe potuto distrarlo: lasciare a noi siciliani e alla cultura italiana un patrimonio letterario di grande valore. Ma al di là del dato testuale, ribadito in un’altra pagina del romanzo (“Così mi vedo dentro una condanna da scontare fino alla fine o, come dicono i colleghi, fino alla pensione”), nello sguardo attento alla povertà dei suoi alunni, letta attraverso la lucida descrizione dei poveri giochi, dei vestiti logori, delle scarpe inadeguate a proteggere dal freddo e dal fango di un paese ancora agricolo che viene descritto come l’albergo preferito della nebbia e della muffa, vedo la cura educativa di un buon maestro.
Se potessi lo inviterei a discutere in presidenza di come un educatore non può che essere un inguaribile e fiducioso, magari “folle” ottimista, che crede che la società non sia per la scuola solo un fattore, e quindi un dato, ma anche un prodotto. Vorrei incontrarlo nell’aula Sciascia e raccontargli che quei bambini, alunni di un tempo, sono stati autori, anche grazie all’incontro con quel maestro e con altri simili a lui, di un cambiamento profondo del paese, di un’evoluzione economica e sociale di cui, sono certa, si sorprenderebbe.
Gli direi che nel ricordo affettuoso dei suoi ex alunni (“Malgrado tutto”, edizione speciale per il decennale dalla morte del novembre 1999) è rimasta la dolcezza del suo sorriso, dell’essersi astenuto dall’uso della verga, del bastoncino di mandorlo, sulle spalle dei ragazzi, tanto invocato, in modo scellerato, sebbene fosse vietato già a quell’epoca, dagli stessi bambini e dai loro genitori come strumento educativo! Gli ex alunni lo ricordavano come un maestro all’avanguardia, dal canto suo Sciascia, osservandoli, analizzava una società ed un paese, per denunciare quanto fosse lontano dalla “ragione”.
Gli racconterei che, purtroppo, la demotivazione del maestro, ancora oggi, qualche volta serpeggia, in coloro, invero pochi, che continuano a considerare, come alcuni suoi colleghi, gli alunni come dei numeri. Ma per Sciascia sono certa che non lo fossero, atteso che quelle giovani vite, icona di un Dopoguerra difficile, erano osservate con interesse e attenzione dal loro insegnante!
Avevano fame, quei bambini, e baruffavano per andare a refezione a mangiare qualcosa. Oggi no, i bimbi di Racalmuto generalmente vivono dignitosamente, pur con le difficoltà economiche vecchie, cui si sono aggiunte le nuove, causate dalla pandemia. Ed erano annoiati e anche oggi spesso i nostri ragazzi sono malati di noia! Forse, per capire quella noia, dovremmo ancora meditare le pagine del pedagogista Celestin Freinet (1896-1966), che, teorico della Pedagogia della Cooperazione, riconobbe validità culturale, almeno come dato di partenza, agli interessi infantili popolari, senza sostituirli immediatamente con i programmi scolastici. Con il suo monito “Non separare la scuola dalla vita”, raccomandava ai maestri di ogni tempo di far sì che gli alunni non deponessero “il cuore” sul muretto della scuola prima di entrarvi, per poi riprenderlo all’uscita! Nella lucida critica ai libri di testo, con le loro tematiche lontane dalla vita, che il maestro Sciascia fa nelle Cronache scolastiche, mi pare di cogliere gli aspetti di quell’innovazione pedagogica incarnata da Freinet. Certo la poesia e la grammatica sembravano assai lontane dalla miseria e dal “rancore” di quei bambini, i suoi alunni, cresciuti troppo in fretta a recuperare disperati padri dalle osterie e a contribuire economicamente al sostentamento familiare, andando a servizio dai signori del tempo (denominati “criati”, in dialetto siciliano “servi”, o “carusi”, cioè bambini/ragazzi, come, con un minimo di evoluzione sociale, venivano appellati, ferma restando la piaga dello sfruttamento minorile).
“I banchi erano vecchissimi e scomodi”, artigianali, di pesante legno, come quelli dell’aula che oggi porta il suo nome, e spesso incisi con le lamette per monelleria, erano ben lungi dalle attuali sedute innovative, erano separati dalla cattedra, innalzata dal livello della pavimentazione con una predella di legno e davano vita ad un ambiente di apprendimento rigido. Mi piacerebbe poter raccontare al Maestro che la pandemia ha irrigidito nuovamente gli ambienti ed ha portato la scuola dai vetusti ed eleganti edifici del ventennio che ancora ci ospitano, agli ambienti virtuali, con la solita sfida: dare vita ad ambienti di apprendimento che siano, soprattutto, luoghi di relazione.
Ma Sciascia la relazione l’ha curata, con quella critica per “il banco degli asini”, scandalo di una scuola che non aveva ancora imparato ad essere di tutti e di ciascuno e, quindi, veramente inclusiva e, soprattutto, allorché non riusciva a non essere autentico! Mi riferisco alla riflessione sul fatto che, per quanto si sforzasse di insegnare con zelo la religione cattolica, gli alunni percepivano quanto ne fosse estremamente lontano. Sciascia racconta un po’ sorpreso questa circostanza che, in realtà, non ci meraviglia per niente: i ragazzi, infatti, cercano e apprezzano coloro che sono onesti intellettualmente e possono qualificarsi come testimoni credibili. Certamente Sciascia, che si diceva cristiano, ma non cattolico, era credibile su tanti temi, ma non completamente su quello! Non sapeva fingere e ciò ne faceva un maestro ed una persona autentica.
L’etica di Leonardo Sciascia, che emerge dalle sue pagine, non solo delle Parrocchie di Regalpetra, è quell’aspetto che, facendomi superare l’iniziale “scandalo”, mi fa apprezzare non solo lo scrittore, ma anche il maestro. Se, infatti, sciasciano vuol dire avere rigore morale, rispetto della dignità delle persone, amore per la legalità e per la giustizia, allora Sciascia, che diceva di non amare la scuola, è stato un buon maestro ed anch’io, appassionata donna di scuola, vorrei, in tal senso, definirmi una dirigente “sciasciana”.
Carmen Campo
Vice presidente vicaria UCIIM Sicilia
da “La scuola e l’uomo” – uciim.it