Siamo nel vivo della “Settimana Santa”, domani sarà la Pasqua, festa che simboleggia la Resurrezione, il perdono dei peccati. Nelle vie e nelle piazze si darà vita alla rituale Via Crucis che non è soltanto una sacra rappresentazione ma, come ci hanno insegnato al Catechismo, è un modo per formare il nostro spirito alla sofferenza vissuta da nostro Signore Gesù nel suo doloroso viaggio verso il Calvario. E mai, forse, come in questo periodo potrebbe assumere il suo più alto significato, visto le notizie che i media ci riportano giornalmente. Una parte del mondo molto vicina a noi è in guerra e guerra vuol dire sofferenza, distruzione e morte; per tanti esseri umani, in questo momento, il patimento della fame, della sete, del freddo, della paura costituisce una vera e propria via Crucis senza soluzione di continuità per tante famiglie costrette a fuggire, per i numerosi bambini abbandonati, o peggio uccisi dalle bombe che hanno letteralmente demolito città intere e che non offrono più riparo e protezione; cronache dolorose della pazzia umana che ci avvicinano al supplizio patito da Gesù. Per i credenti la “Settimana Santa” è il rito forse il più solenne, quello che maggiormente fa sentire vicini a Dio, a cui la tradizione popolare ha dedicato canti, rappresentazioni sceniche, poemi, le cui origini, spesso, si perdono nella notte dei tempi e che vuole dare un alto significato della piccolezza dell’uomo dinanzi al Divino.
In Italia sono numerose e varie le rappresentazioni, durante le processioni, che rievocano le vicende umane e divine del Nazareno nell’ultima sua settimana terrena; alcune intrise di una vera e propria drammatizzazione che vuole esprimere la contrizione sincera dei fedeli nel voler chiedere perdono per il tradimento a Cristo. Dai ricordi di bambino affiorano scene di gente che in ginocchio seguiva la processione, volti tristi di donne avvolte nei loro veli scuri, i canti lugubri e solenni accompagnati dalla banda musicale cittadina. Rituali che si sono tramandati di generazione in generazione e che sono andati ad arricchire la letteratura con opere ispirate a questo periodo “sacro”. Da acuto osservatore qual era, anche Leonardo Sciascia ha riportato una precisa descrizione di questi riti, durante il suo soggiorno a Caltanissetta, in un suo raro scritto pubblicato nelle pagine della prestigiosa rivista “Sicilia”, edita da Flaccovio, ritrovata e conservata a “Casa Sciascia” grazie al grande lavoro di catalogazione svolto da Pippo Di Falco e Gigi Restivo.
Scrive lo scrittore racalmutese: “…I mastri delle arti vestono rigorosamente di nero, come per un recente lutto che però consente indimenticata compiacenza…” e ancora “…bande musicali arrivano da ogni parte, i più valenti complessi bandistici non solo della Sicilia, ma del Meridione; da quattordici a sedici complessi, e ciascuno arrivando percorre le vie principali, suonando sgargianti marce. La città è festosa, vibra di gioia nel vibrare…È la festa siciliana; anzi: la “fiesta”, quella sorta di esplosione esistenziale che sono le feste nei paesi della Sicilia e della Spagna”. Ma nel volgere del giorno, quando il cielo livido sembra afflosciarsi sulle cose… il clamore si estenua, si incupisce il suono delle bande; e la gente si muove per la piazza come si trovasse a far visita di lutto: fitta e silenziosa, in un moto di vortice intorno alle “bare” dei Sacri Misteri…” e continua “…Le “bare” sono sedici; e su ciascuna è rappresentata, in gruppi statuari di grandezza naturale, un momento della Passione: la Cena, l’Orazione nell’orto, la Caduta, il Sinedrio, la Flagellazione, l’Ecce Homo, la Condanna di Pilato, la Prima caduta, il Cireneo, la Veronica, il Crocefisso, la Deposizione, la Pietà, la Traslazione, l’Urna, l’Addolorata… Ciascuna “bara” appartiene ad una determinata categoria di lavoratori; tranne l’Urna, che appartiene al clero e ai “civili…”
Sciascia fa emergere in questo scritto come la festa sia per l’uomo il solo momento in cui egli esce dalla sua solitudine per sentirsi parte di qualcosa “…Poiché è soltanto nella festa – scrive – che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città…”.
Con le parole del nostro Scrittore chiudiamo l’editoriale accomunandoci insieme in questa Festa che verrà per sentirci tutti parte di questo mondo che sia senza guerre, divisioni e discriminazioni sociali e formulando ai nostri lettori l’augurio di una serena Santa Pasqua da parte di tutto lo Staff della Strada degli Scrittori.