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La lingua madre e le voci di dentro

di Enzo Alessi

Da Dante alla “lingua degli affetti”, con Pirandello, Martoglio e Camilleri. Le riflessioni del regista Enzo Alessi, cultore della lingua siciliana, in occasione della Giornata della Lingua madre

Enzo Alessi

 

Dante tra il 1319 e il 1320 compose le “Egloghe” in risposta a due lettere poetiche del Di Giovanni. Del Virgilio, che lo esortava a scrivere in latino anziché in volgare e lo invitava a Bologna, Dante replica riaffermando la dignità della sua poesia, per cui spera di poter ricevere il “Lauro” sulle rive dell’arno. Non si sbagliava! La sua è stata una scelta coraggiosa.
Il “Paradiso” viene indicato come la più straordinaria esperienza metalinguistica della nostra letteratura. Dante rivive artisticamente in virtù della trasfigurazione “analogica” del linguaggio, che è appunto la “forma” o lo “stile” della sua poesia.

Per questo motivo viene considerato “Il Padre della lingua italiana”. La questione della lingua è stata sempre presente e motivo di studio. Ricordiamo Francesco De Buti, Benvento Da Imola, Guido Da Pisa e Giovanni Boccaccio che diede nome di “Divina” alla “Commedia” dantesca riconoscendole valore letterario e morale. Nel ‘500 Pietro Bembo nega la validità alla “Commedia” lasciandosi influenzare dal clima della Controriforma.

Nel ‘700 Ludovico Muratori censura la lingua dantesca come “barbaro linguaggio”. Si salva solo Gianvincenzo Gravina che nel suo scritto la “Rgione poetica” paragona Dante ad Omero per la vastità del suo mondo fantastico e per la ricchezza della sua lingua in contrapposizione a quella più povera del Boccaccio e del Petrarca. Anche Giambattista Vico considera il linguaggio dantesco coerente perché rapportato al mondo storico-culturale del Poeta.

Le tesi del Vico verranno riprese da Francesco De Sanctis e da Benedetto Croce dove esalteranno la grandezza del poeta Dante e la sua lingua. Nell’800 in Germania: Friedrich Schiller, Friedrich Hegel e Karl Wilhelm Von Schlegel e in Italia Ugo Foscolo daranno a Dante la sua meritata grandezza linguistica e poetica. Da ricordare che: in Italia nel 1901 si fonda la società “Dante Alighieri” con presidente Giosuè Carducci. Nel 1921 Benedetto Croce con il saggio La poesia di Dante, porta la critica di De Sanctis alle estreme conseguenze separando la “struttura” della “Commedia” in un semplice prodotto pratico dell’immaginazione dalla vera poesia. Ma il critico Luigi Russo opponendosi alle teorie Crociane afferma che: “poesia è tutto ciò che assume un preciso significato universale”. Ha ragione il Russo, Dante è un grande poeta se dopo settecento anni ancora (in tutto il mondo) viene considerato il Padre della lingua italiana.

Nicolino Sapegno in Storia letteraria del Trecento così scrive: “Il lessico dantesco accoglie tutti gli apporti della tradizione letteraria, dai sicilianismi agli stilnovisti, ai dialettismi toscani e si nobilita con l’inusitata frequenza dei latinismi classici e medievali. Anche la sintassi si articola in una varietà inaudita di modi e di schemi di collocazione dei vocaboli in rapporto alla frase, al ritmo, dalla conversazione aulica al parlato quotidiano”. Tale grandezza la ritroveremo ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni che fonda un genere letterario nuovo anche dal punto di vista della forma, inserendo nel “Romanzo” diversi tipi di prosa con i quali lo Scrittore narra le vicende dei personaggi, riferisce dialoghi, esprime considerazioni morali e ricostruisce fatti storici. Da sottolineare che in un Paese che non ha ancora raggiunto la unificazione, in cui non esiste una “lingua comune” ma si parlano tante “lingue” regionali Manzoni sceglie di esprimersi nella forma del “parlato toscano” che diventerà modello della lingua nazionale degli italiani.

Tra i contemporanei voglio ricordare Italo Calvino che con “Lezioni Americane” del 1984 sostiene “che una epidemia pestilenziale ha colpito l’umanità nell’uso della parola che nel linguaggio comune diventa astratta, anonima, diluisce i significati. Tutto questo lo troviamo nel linguaggio della politica, nella uniformità burocratica, nei “mass-media”, ma soprattutto nella diffusione scolastica della media cultura”.

Bisogna uscire da questa “omologazione”, da questa lingua spersonalizzata privata dal suo primogeneo significato. “Lezioni mericane” ci ricorda “Aleph” di Borges un testo fondamentale per chi utilizza la parola come strumento di comunicazione, perché i linguaggi, fanno parte di noi e le “parole” come sostiene il grande scrittore Gianrico Carofiglio nel volume Con parole precise, hanno il potere di creare uno spazio diverso, dove si può respirare aria pura.  Anche Andrea Camilleri con Tullio De Mauro affronta il “problema” della “lingua” nel saggio La lingua batte dove il dente duole ed esordisce: “L’albero è la lingua, i dialetti sono linfa”. Si serve della poesia di Ignazio Buttitta, grande poeta siciliano:

Un populu,
mittillu a catina,
spugliatilu,
attuppatici a vucca
è ancora libbiru.
Livaticci u travagliu,
u passaportu,
u tavulu unni mancia,
u lettu unni dormi
è ancora riccu.
Un populu diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri
è persu pi sempri”.

Andrea Camilleri sostiene che il dialetto è la lingua degli affetti, un fatto intimo, familiare. Pirandello sosteneva che la parola del dialetto è “la cosa stessa”, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la “lingua” di quella stessa cosa esprime il concetto. Non si dimentichi che Pirandello scrisse ben dodici commedie in Siciliano. Due con Nino Martoglio di Catania, noto come l’autore di San Giovanni decollato e L’aria del continente, ma anche per la Divina commedia di Don Procopio Ballaccheri ambientata a Catania e che arrivò fino al XXII Canto. Non poté proseguirla perché morì. Per il centenario della morte gli studiosi Sara Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla ne stanno curando una nuova pubblicazione.

E ancora Camilleri: “Quando scrivo mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Testa e cuore sono alla base della mia scrittura”. Cioè “Italiano-dialetto”. Quando Andrea Camilleri ha ricevuto la laurea “Honoris causa” ha chiuso il suo intervento
di ringraziamento con la storia dell’uomo con due teste che parlano due lingue diverse, che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro. Ma torna normale quando le due teste parlano la stessa lingua. Lo stesso concetto lo troviamo in Cesare Pavese in I mari del Sud che è il dialogo con un cugino emigrato per anni e tornato nelle Langhe non parla italiano ma adopera il dialetto che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non glielo hanno fatto dimenticare. Sono contro gli “anglicismi”. Concordo con Mario Luzi per l’introduzione di un nuovo articolo nella nostra “Costituzione” che richiami la lingua italiana come lingua ufficiale della nostra Repubblica.

Tenendo conto che la traduzione italiana di tutti gli atti della Unione Europea è stata abolita in favore della traduzione inglese, tedesco, francese. Ciò significa che la nostra “lingua” è tenuta all’estero in scarsa considerazione. Giacinto Spagnoletti in un suo intervento critico sostiene che il linguaggio poetico e prosistico italiano parte dal “forte ardore creaturale di San Francesco, si chiude con la presenza di Zanzotto e Pasolini che sono i poeti che meglio hanno sentito le ragioni dei modi di trasportare nel linguaggio della poesia le passioni e le urgenze della vita contemporanea. Pasolini con il “Canzoniere Italiano” ricorda Sciascia quando sosteneva che fino agli anni ’50-’60 il dialetto era importante e fondamentale nella vita di ogni giorno e si basava sulla “Cultura dei campi” che il Maestro Racalmutese definisce “La Cultura dei mestieri”.

Anche chi non era contadino o artigiano viveva quella Cultura. Come non ricordare il Belli, Gadda, Bassani, Scotellaro, Pavese. Sono le voci di dentro di Eduardo De Filippo. Ognuno ha affrontato a modo proprio la vivacità della lingua italiana. Qualcuno penserà che sono contrario alle altre lingue. Sbagliato. Dico solo: volete parlare l’inglese, d’accordo; studiatelo bene e fatene la terza lingua (le prime due in Italia sono quella dei padri e la lingua nazionale). E così per il cinese, l’arabo, il tedesco e via di questo passo. E lasciatemi pregare, in questo periodo di dolore, per i morti da pandemia e di follia per voci di guerra, con i primi versi del XXXIII canto del Paradiso della Divina Commedia:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
Umile ed alta più che creatura,
Termine fisso d’etterno consiglio,
Tu se’colei che l’umana natura
Nobilitasti si, che ‘l suo fattore
Non disdegno’ di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
Per lo cui caldo nell’etterna pace
Così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
Di caritate; e giuso, intra i mortali,
Se’ di speranza fontana verace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
Che qual vuol grazia e a te non ricorre,
Sua disianza vuol volare senz’ali.
La tua benignita’ non pur soccorre
A chi domanda, ma molte fiate
Liberamente al domandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
In te magnificenza, in te s’aduna
Quantunque in creatura è di bontate.

Enzo Alessi