“Ciò che illumina nella sua essenza l’essere umano, è la cura”, scrisse Martin Heidegger. Pubblichiamo, a puntate, il saggio del medicartista Salvatore Nocera Bracco che della Strada degli Scrittori è l’anima dei rapporti col mondo teatrale nel territorio. Attore, musicista e scrittore, lega la sua passione alla sua attività professionale, pubblicando saggi e racconti. “Prendi il ritmo e il respiro del più debole” è dedicato, in definitiva, all’essere umano, al suo rapporto con l’esistenza, col corpo e la natura.
La cura riguarda innanzitutto una buona nascita, una buona crescita, una buona vita e una buona morte. Ma la Cura è soltanto il punto di inizio che porta all’emersione di un’altra dimensione umana fondamentale: la Dignità (Sotirio Roccanuova)
La dignità e la morte
E’ più facile per una persona amata e seguita bene
affrontare un percorso purtroppo non risolutivo della malattia (Gianluigi Cetto)
“Eppure, la funzione più importante dei miei giorni non è quella di esistere, ma di vivere, e non certo cercando di prolungarli, ma di dare un senso al loro tempo”. E non è detto che si muoia come si vive. Tuttavia “bisogna aspirare a viversi persino la propria morte, chiudendo gli occhi con serena partecipazione, come se fosse un atto vitale, di cui siamo perfettamente consapevoli e capaci di affrontare” (Franco Berrino).
Nel 2009 è stato pubblicato La dignità oltre la cura, sotto la supervisione dell’oncologo veronese Gianluigi Cetto, tra i pionieri in Italia, e non solo, nel promuovere, a partire dal 1998, nell’ambito delle cure palliative e della terapia del dolore, lo sviluppo legislativo sugli hospice e gli oppioidi, che nel 2010 hanno portato alla promulgazione della Legge 38/2010: a tutela della dignità della persona, e definendo appropriatamente le cure palliative e la terapia del dolore. Le cure palliative e la terapia del dolore sono una grande conquista per la nostra società, un vero e proprio Pallium, in riferimento al mantello di San Martino, che dovrebbe avvolgere in linea di principio tutte le Persone che si avviano al trapasso: dunque cure palliative in quanto cure di fine vita, soprattutto negli stati terminali da malattia neoplastica. L’istituzione degli Hospice permette già al SSN di erogare importanti servizi, ma i posti disponibili non riescono a far fronte alla crescente richiesta.
È convinzione diffusa che le malattie terminali non permettano una buona gestione a casa. In realtà sarebbe invece auspicabile favorire proprio a casa queste cure, così come si evince dalla stessa Legge 38/2010, che prevede una Rete Locale di Cure Palliative. A supporto, viene redatto di volta in volta un PAI, Piano Assistenziale Individuale, che individua i bisogni emergenti delle Persone malate e di chi sta loro accanto, appronta una strategia il più possibile concordata con il paziente e i familiari e monitora i risultati. Prima di questa vera e propria rivoluzione culturale, la maggior parte di questi servizi erano garantiti quasi esclusivamente dal volontariato, anche praticato da professionisti. Il volontariato è uno strumento solidale e prosociale fondamentale ma di supporto: troppo spesso in passato il lavoro gratis di alcuni operatori dotati di spiccato altruismo (buona volontà in ogni caso) si è sostituito ai servizi che la nostra legge ormai dovrebbe in ogni caso garantire e di cui si stanno cominciando a vedere finalmente i risultati. E una ulteriore conquista in tal senso riguarda la costituzione in Italia, così come in altre nazioni d’Europa, di un’apposita specializzazione denominata appunto Medicina e Cure Palliative.
In alcuni contesti occidentali come quello americano, per esempio, da quanto ne so, la spesa per le cure palliative è considerata dall’opinione pubblica una spesa inutile. Da noi, al contrario, proprio per la nostra idea tutta mediterranea di Famiglia, la maggior parte dei malati cronici e i più anziani vengono letteralmente accuditi a casa quasi sempre direttamente dai parenti. La maggior parte dei caregiver (chi si prende cura: badante), dalle nostre parti, sono proprio parenti prossimi, per lo più figli o nipoti. In realtà sembra esserci uno squilibrio tra Nord e Sud. Ma almeno appare evidente che in alcuni contesti le cure domiciliari non solo sono possibili, ma sono anche di concezione molto avanzata, con l’ausilio di personale sempre più qualificato e a carico del SSN, per cui in fondo le famiglie che devono prendersi cura di un congiunto malato e non più autosufficiente non devono per forza spendere molti soldi. E il caregiver familiare viene riconosciuto anche lavorativamente.
Le cure palliative sono dunque un itinerario di accompagnamento alla morte, anzi: alla buona morte, intesa come evento naturale. Anche se attualmente ci si sta aprendo, in casi del tutto particolari, alla possibilità di intendere la buona morte non propriamente in quanto eutanasia, che è poi il suo significato etimologico, ma di suicidio assistito, così come definito e consentito da una sentenza della Corte Costituzionale del 2019 solo a “malati con patologia irreversibile e fonte di intollerabili sofferenze, pienamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli e tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale”.
Così come afferma il professor Cetto, in una chiarificante intervista rilasciata a Michela Nicolussi Moro, per il Corriere del Veneto: “L’eutanasia è un intervento attivo finalizzato a provocare la morte di un soggetto consenziente. Il suicidio assistito permette al malato terminale, con l’assistenza di sanitari, di auto-somministrarsi il farmaco letale. Io lo vedo come un escamotage per non affrontare il tema dell’eutanasia e per sollevare il medico da ogni responsabilità.” Molti potrebbero protestare poiché si potrebbe avocare la libera scelta del malato a decidere come e quando smettere di soffrire. Più che legittimo. Tuttavia conoscere meglio le Cure Palliative – che in Italia ancora non sono ben distribuite – significa avere una grande possibilità di ridurre molto significativamente la sofferenza, che è quello che vuole la maggior parte dei cosiddetti malati terminali. Il professor Cetto insiste: “Basta illustrare e somministrare bene queste terapie o la sedazione profonda, che consiste nell’interrompere qualsiasi cura, non nell’indurre il decesso. Non è eutanasia, il paziente non muore prima del dovuto, ma lo fa senza accorgersene e senza soffrire.” , sottolineando inoltre l’importanza degli affetti sull’efficacia delle cure palliative e la terapia del dolore: “E’ più facile per una persona amata e seguita bene affrontare un percorso purtroppo non risolutivo della malattia.” Già all’epoca della stesura della legge 38/2010 si poneva l’attenzione sul fatto che la morte non fosse più percepita come naturale, e si prendeva consapevolezza che “il sempre più diffuso e perfezionato impegno tecnologico ha spersonalizzato il processo del morire privandolo del suo stesso significato in termini di affetti, consapevolezza, possibilità di decidere della propria vita, in una parola privandolo di dignità” (Gianluigi Cetto). E la spersonalizzazione non riguarda soltanto il “morire”, ma le relazioni quotidiane tra persone che non si riconoscono più, non si scoprono più a guardarsi negli occhi, a sorridersi, a condividere un qualche rallentato tempo di spensieratezza ed allegria insieme.
Capita soprattutto ai giovani iperconnessi, ai più fragili, agli anziani costretti da circostanze pandemiche all’isolamento, dentro un mondo istituzionale ormai troppo burocratizzato. Anche a causa di questo, sta cominciando a entrare nel vocabolario medico-relazionale la parola dignità, per fortuna non trovandoci proprio del tutto impreparati, soprattutto quando ci troviamo impegnati a interagire con persone che la malattia ha sottratto dall’essere in relazione, e costretto, pur nell’ambito della Cura, in una posizione di dipendenza totale. E a maggior ragione “cosa significa parlare di dignità alla fine della vita? Il termine dignità può essere utilizzato in maniera molto diversa, spesso contrapposta, e può sottendere atteggiamenti e scelte morali nettamente divergenti: da una parte la dignità può essere invocata per sostenere il rispetto della persona e della vita in tutte le sue fasi, dall’altra è spesso intesa come diritto a una morte dignitosa, diventata sinonimo di diritto all’eutanasia o al suicidio assistito.
La medicina palliativa, attraverso il controllo dei sintomi, contribuisce in maniera determinante alla preservazione della dignità della persona. Le cure di fine vita non riguardano però soltanto procedure mediche per il controllo dei sintomi o problematiche psicologiche, etiche o deontologiche, ma il senso stesso del morire e la dignità della persona al termine della vita: le cure palliative devono allargare il loro orizzonte, dal controllo dei sintomi alla dignità della persona.
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