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Sciascia e Racalmuto: “La mia festa dentro un caleidoscopio”

La pandemia ha cancellato, per il momento, i riti delle feste religiose. Oggi si sarebbe dovuta svolgere la festa della Madonna del Monte amata dallo scrittore. Rileggiamo alcuni passi delle “Parrocchie di Regalpetra”

LA FIESTA DI REGALPETRA

di Leonardo Sciascia

Stiamo a chiacchierare per tre ore al giorno, noi maestri; e fuori c’è la festa, i ragazzi che dovrebbero essere a scuola seguono a grappoli le bande che girano per il paese, stanno intorno alle bancarelle dalle tende bianche dove si vende la ‘cubaita’, un torrone che ci vuole il martello a romperlo, disposto a gradini sulle bancarelle, e le mosche che vi si posano così compatte da formare un nero muschio. Io che sono nato qui, provo una punta di malinconia a dovermene stare a scuola; mi piace non perdere niente della festa, sedere al circolo e guardare le immagini della festa come dentro un caleidoscopio, il gioco dei colori che continuamente si compone e si dissolve – ora domina il rosso, ora il bianco, poi il verde, l’azzurro; e si ritorna al rosso – proprio come girassi un caleidoscopio. E le voci. E i tamburi. E le mule cariche di grano, le donne a piedi scalzi che portano sulla testa il sacco pieno di grano, i ragazzi che portano grandi candele istoriate. Tutte cose che ho visto ogni anno, da quando son nato; ogni anno mi piace tornare a guardarle, come fossi ancora ragazzo.

Sciascia con Ferdinando Scianna nel 1986 alla Festa del Monte di Racalmuto (foto Pietro Tulumello)

La fiesta finalmente e di tutti, rossa fiesta, urlante grappolo di gioia. Il regalpetrese – scrive Sciascia – che lavora nelle miniere del Belgio o si trova in America ormai da molti anni, sentirà acuta malinconia negli ultimi giorni di maggio, e scrive ai parenti di Regalpetra – prima di morire voglio almeno vedere per l’ultima volta la festa, e fatemi sapere quest’anno com’è andata, e chi ha preso la bandiera.

L’apice della festa è infatti nella conquista della bandiera, c’è una macchina alta cinque metri, in cima porta uno stendardo ricamato in oro, ogni anno diverso, i giovani borgesi in piazza lottano per conquistare lo stendardo. C’è tutto un rituale, non possono lottare per la bandiera che borgesi scapoli ma già fidanzati, entro l’anno dovranno sposare; si formano le fazioni, ciascuna sostiene il suo campione: l’ora va rispettata e il luogo dove la zuffa deve cominciare, armi non si devono portare; ma a pugni e calci quanto si vuole e si può, malcapitato il carabiniere che vedendo sangue si caccia in mezzo, qualcuno arrivato di fresco lo fa, quelli che lo sanno stanno a guardare: chi si mette in mezzo prende, si sa, la parte migliore delle botte. Dura dieci minuti, un quarto d’ora la zuffa; poi si vede sanguinante il campione salire verso la bandiera, scalcia come un mulo contro quelli che vorrebbero tirarlo giù, coglie finalmente lo stendardo mentre sotto la lotta di colpo si placa, un mare che fa bonaccia diventa la folla che nella zuffa ribolliva. L’anno scorso la lotta per la bandiera, trascinandosi risentimenti elettorali, si annunciava cruenta; allora un borgese di rispetto, un anziano, interevenne ai primi colpi, era scapolo, dichiarò che la bandiera la voleva lui. Accadde una cosa mai vista, tutti in tripudiante accordo i giovani borgesi sollevarono l’uomo di rispetto, per età e corpulenza non ce la faceva, lo issarono sudando fino alla bandiera.